Foto © Eugenio Gibertini
Paolo Bernabucci, è presidente del Gus, Gruppo Umana Solidarietà, associazione che da vent’anni opera nel campo dell’accoglienza e dell’assistenza a profughi, rifugiati, che fuggono da Paesi in guerra e dalle persecuzioni. L’intervista di Luca Patrassi da il Corriere Adriatico.
La prima cosa bella che ha avuto dalla vita?
Sarò banale, ma la prima cosa bella è la famiglia che ho avuto, e poi la piccola comunità dove sono cresciuto. Senza sentirmi di “appartenere” fino in fondo.
C’è stato un momento, un incontro che le ha fatto intuire quello che sarebbe stato il suo futuro?
Non vivo in un futuro sognato. Molto semplicemente continuo a sognare e (in)seguire i miei ideali. Quando mi guardo indietro sono ancora l’adolescente che riflette e si interroga, che ascolta “la guerra di Piero” o legge “Lettera a una professoressa” di don Milani. La partecipazione, la tenacia, la convinzione che cambiare il mondo si può e tutti possiamo/dobbiamo farlo. Senza doverci rassegnare al facile mito dell’eroe che, a volte, serve soltanto a nascondere la nostra ignavia, l’indifferenza, la paura.
Non vorrei ricordare male, ma lei non è un caso di profeta in patria. Il primo riconoscimento internazionale è arrivato con lo tsunami nel Su Est asiatico?
Con lo tsunami è arrivata la notorietà. Ma di cose belle e, secondo me più importanti, ce ne sono state altre, anche prima del 2004. Ricordo l’incontro con il sindaco di Sarajevo il 17 agosto 1995, in una città spettrale, tramortita dai bombardamenti incessanti. Poi l’arrivo in Kosovo nel 1999: il Gus tra le prime ong ad intervenire dopo la fine dei bombardamenti NATO, la pulizia etnica e gli orrendi stupri di guerra contro le donne. E ancora in Beirut nel 2006, dove abbiamo portato in salvo più di cinquecento donne dello Sri Lanka, abbandonate dai loro “schiavisti”, che scappavano dalle bombe israeliane.
Si dice Gus ma il pensiero corre a lei. C’è dell’altro dietro l’associazione di cui è riferimento?
Ovviamente sì. Purtroppo si tende sempre a personalizzare e semplificare, ma il Gus è ormai da diversi anni un’organizzazione composita, strutturata e diffusa su gran parte del territorio nazionale, dalle Marche alla Puglia, passando per l’Emilia Romagna, la Sardegna, il Lazio e l’Abruzzo. Sono molte le donne e gli uomini che in questi anni hanno maturato esperienza, competenza e professionalità. Oggi essi sono un fondamentale punto di riferimento per tutte le nostre attività. Senza dimenticare Franca e Giovanni che con me, da quasi venti anni, condividono le responsabilità e la rappresentanza.
Segue diverse attività e persone in Italia e all’estero. Ce ne è una in particolare che l’appassiona di più?
In questo momento mi sento molto coinvolto dall’esperienza del Rojawa, una regione al nord della Siria, che lo scorso anno è riuscita a sconfiggere l’ISIS e ora sta sperimentando un nuovo modello di convivenza fondato sulla laicità e la partecipazione. Esemplare la scelta “rivoluzionaria”, per gli standard della regione, di sancire la parità assoluta tra uomini e donne. Voglio pensare che questa esperienza sia il seme di un futuro migliore per l’intera umanità.
Una cosa che vorrebbe fare?
Una sorta di ambasciata dei popoli nel Rojava. Vorrei che il Gus fosse promotore di una missione permanente in quell’area, coinvolgendo le organizzazioni internazionali e le componenti culturali europee. Vorrei dare un segno di vicinanza non sono simbolica a quel popolo, che non ha bisogno soltanto di armi, ma di solidarietà concreta e sostegno per costruire una comunità pacifica e soprattutto laica.
È una frase celebre legata alla pesca, però anche lei anni fa quando consegnò barche da pesca a chi era rimasto senza nulla dopo lo tsunami osservò che era basilare dare lavoro e non solo assistenza umana. È una regola che vale ancora?
Ovviamente sì. Vale per tutti i popoli e vale a maggior ragione per chi si occupa di cooperazione internazionale. E vale altresì dopo le catastrofi. Gli interventi devono essere valutati con questo parametro: cosa lasciamo a quelle popolazioni e a quel territorio? Questo, ahimè, è uno dei grandi fallimenti della cooperazione internazionale.
Il suo Gus lavora molto anche nelle Marche con l’accoglienza di chi arriva con i barconi: la considera una bella risposta di integrazione, un volersi lavare le coscienze piazzandoli in albergo o nelle case e lasciarli al loro destino per anni od altro ancora?
Sembra una domanda retorica. Certamente non è questa la risposta più efficace. Per l’accoglienza di chi fugge da guerre, conflitti e persecuzioni c’è una risposta umanitaria e c’è una risposta di livello più alto, che implica dei percorsi di assistenza e tutela che raramente vengono attivati. Spesso le istituzioni affrontano l’emergenza degli sbarchi cercando semplicemente una sistemazione, di fatto accontentandosi di chi mette a disposizione strutture ricettive. Questo è uno dei nodi più problematici dell’accoglienza: l’inesperienza e l’improvvisazione.
In ogni caso qual è il suo pensiero. Chi (e dove) lavora veramente per l’integrazione?
Ripeto: non basta avere una struttura ricettiva per fare “accoglienza”. Questo lavoro implica una serie di attività e competenze che non si improvvisano in qualche giorno. Chi si occupa di richiedenti asilo e rifugiati non può farlo a tempo perso. Il Gus fa questo tipo di attività dal 1998 e dedica molto tempo alla formazione degli operatori. Proprio per questo ci stiamo impegnando nell’elaborazione di un codice etico per tutte le organizzazioni che si occupano dei migranti.
Chi opera di solito riceve critiche da chi non fa. C’è, a distanza di anni dal suo debutto, una cosa che la fa ancora arrabbiare?
Anche nei momenti più difficili faccio fatica a provare “rabbia”. Sono amareggiato quando ci sono strumentalizzazioni politiche, ma allo stesso tempo ho la consapevolezza che l’esistenza stessa del Gus rappresenta un modo diverso di agire e di operare nel sociale. Per alcuni il Gus è un pugno allo stomaco, un fenomeno fastidioso. La solidarietà, i poveri, gli ultimi non sono più appannaggio del mondo cattolico, ma riguarda tutti. Si può “fare qualcosa”, dando un senso alla propria vita, credendo fermamente negli ideali di laicità e nel dovere civico. In questo mondo sempre più ostaggio di molteplici e feroci integralismi la laicità è rivoluzionaria.
Una persona o un’immagine che le è rimasta nel cuore?
Scelgo l’immagine di una mamma india in America Latina che, in lacrime, mi porge la sua bimba perché la portassi via con me. In quel momento rappresentavo la sola speranza di un futuro possibile per la piccola creatura. Quella ragazza immolava l’essere madre con il sacrifico estremo. È un ricordo emblematico di quello che definiamo “scandalo assoluto” per la dignità umana violata. Anche per questo faccio, amo e soffro, il mio lavoro.
Quale augurio farebbe alla sua città?
Se per mia città intende Macerata, che indubbiamente si è legata alla storia del Gus, l’augurio che faccio è di essere sempre più capace di aprirsi al mondo e sempre meno provinciale, prigioniera spesso della “chiacchiera da bar”. Le auguro di valorizzare le grandi energie delle nuove generazioni, delle tante associazioni e organizzazioni dalle enormi potenzialità, spesso sconosciute, che lavorano, approfondiscono e lottano.