“Vi prego di trattarli come esseri umani” è l’invocazione di Mussie Zerai, il prete candidato al premio Nobel per la pace, che da anni è un punto di riferimento per la comunità eritrea italiana, inviata per SMS al ministro dell’Interno Minniti questa mattina da Piazza Indipendenza a Roma, scenario di una guerriglia urbana contro migranti eritrei e somali che da giorni occupano la piazza poco lontana dalla stazione Termini.
“La prego d’intervenire, la polizia sta usando la forza per sgomberare le persone anche dalla piazza, ma queste persone non hanno dove andare”, ha scritto nelle prime ore del mattino Mussie al ministro Minniti mentre Piazza d’Indipendenza si infuocava di caldo e tensione.
Ma come siamo arrivati qui? Cosa ha portato ai fatti di Piazza Indipendenza? Riavvolgiamo il nastro all’alba di sabato 19 agosto quando circa duecentocinquanta famiglie, la maggior parte delle quali di origini eritree e titolari dello status di rifugiato, sono state obbligate a lasciare l’ex sede dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) che occupavano e autogestivano dal 2013 in via Curtatone, nei pressi della piazza.
In pieno agosto, con un’amministrazione comunale evanescente, senza alternative plausibili, circa un centinaio di persone dopo lo sgombero sono rimaste nella piazza, rifiutandosi di abbandonare un luogo che hanno frequentato per anni, dove lavorano e dove portano i figli nelle scuole di quartiere, con il rischio di vedersi di nuovo sradicati. La trattativa che ne è seguita con la Prefettura e la proprietà dell’immobile ha consentito ad alcune donne, tra cui un paio incinte, ai bambini e alle persone malate di restare temporaneamente nel palazzo, mentre altri migranti stazionavano nella piazza in attesa di una soluzione.
Con l’assessore ai Servizi sociali di Roma Laura Baldassarre irraggiungibile e nella totale incertezza sull’efficacia delle soluzioni provvisorie trovate (proposto ad 80 migranti uno Sprar e ad altri 80 la destinazione temporanea di Rieti per sei mesi) all’alba di questa mattina la situazione è letteralmente esplosa sotto l’occhio di giornalisti e telecamere, che hanno ripreso in diretta lo sgombero dei migranti da parte dei poliziotti in tenuta antisommossa.
Donne in ginocchio con le braccia alzate, bambini in lacrime trascinati via. Scene che non vorremmo mai vedere in un paese che si definisce civile, tantomeno nella Capitale che ospita meno richiedenti asilo di quanto previsto dall’accordo tra Stato e regioni, e che da giorni è chiamata a dare una risposta efficace. Nei centri di accoglienza romani ci sono circa ottomila richiedenti asilo (5.581 nei centri di accoglienza straordinaria e 3.028 nei centri Sprar), una cifra inferiore agli undicimila previsti dall’accordo. A questi si devono aggiungere i richiedenti asilo e rifugiati che vivono in emergenza abitativa, cioè in stabili occupati, in situazioni di fortuna o per strada e i migranti di passaggio per raggiungere i paesi del Nordeuropa.
Ma senza un piano di Accoglienza affidabile è inutile avanzare numeri. La storia recente di Roma parla di sgomberi, da Ponte Mammolo al Baobab di via Cupa, e di soluzioni ponte che si sommano all’emergenza abitativa vissuta dalle famiglie italiane e straniere come quelle che vivevano in via Curtatone. Urge da tempo un piano di accoglienza per i migranti ma la risposta è sempre quella delle soluzioni temporanee, degli sgomberi che sommano emergenza all’emergenza.
“Trattiamoli e trattiamoci da esseri umani sempre”, viene da dire vedendo queste scene, figlie di una ipocrisia di fondo che derubrica le migrazioni a numeri e percentuali definendole “emergenze”, come se fosse un fenomeno temporaneo in via di soluzione. Ma non è così, e vogliamo risposte rigorose e definitive, possibilmente da chi non confonde il rigore con il manganello.