di Giovanni Lattanzi, Coordinatore Nazionale GUS
Il presidente del COCIS (Coordinamento delle Organizzazioni non governative per la Cooperazione Internazionale allo Sviluppo) interviene nella polemica che vede al centro il ruolo delle Ong. Abbiamo l’obbligo di salvare le vite umane ma anche di accoglierli in maniera degna e in percorsi di reale integrazione
Da maggio prosegue incessante lo stillicidio di polemiche con al centro le Ong. Da una parte gli ultrà che sbraitano insulti contro il Terzo settore, le cooperative che si occupano di accoglienza, le associazioni di volontariato e le ong, tutto frullato nell’indistinzione; dall’altro gli appelli ad usare la ragione, a verificare i fatti, a guardare la realtà senza distorsioni. Appelli lanciati da donne e uomini impegnati in questo settore, provando a contrastare la confusione e la disinformazione imperanti, che esasperano il dibattito pubblico, cancellano i fatti a favore degli umori. Colpa dell’uso sconsiderato dei social, nostra realtà quotidiana lastricata di fake news? Sì, ma anche di certa informazione da talk show di grana grossa, che parla di immigrazione senza approfondimento, senza alcuna attinenza con la realtà.
La realtà è quella di cui mi occupo da oltre venti anni: l’accoglienza di richiedenti protezione internazionale. Mi capita spesso di andare nei centri di Prima accoglienza e negli Sprar a confrontarmi con gli operatori e soprattutto con le tante ragazze e i ragazzi che ce l’hanno fatta, che sono riusciti ad arrivare nella nostra Terra con la speranza di un futuro migliore, con un bagaglio misero in mano, ma enorme e troppo pesante nel cuore. Ascoltare le loro storie, il racconto del loro incredibile viaggio, è quanto di più lontano dal rumore di fondo dei social network e dei talk show di questi giorni.
Le parole di questi ragazzi sono simili tra loro, dalla Sicilia al Veneto. Parole forti, che ascoltandole è necessario far appello alla propria forza d’animo per non essere assaliti dalla rabbia o dallo sconforto. Violenze di tutti i generi alla persona e alla sua famiglia, sfruttamento, giorni e giorni claustrofobici, chiusi in una stanza senza cibo né servizi basilari. Questo è quello che accade in quei viaggi, e anche nella Libia delle tribù che si dividono il territorio e i traffici. La Libia è quel territorio che Unhcr considera privo delle condizioni minime per aprire uno o più centri di accoglienza. Lo ha ricordato anche il Commissario Avramopoulos. Impegnarsi sul campo in quel territorio ora è pericoloso davvero. Che fare, quindi? Lasciare tutto come sta e raccontarci che per noi è troppo pericoloso ma per i migranti non lo è? No. Dobbiamo provare a cambiare e ognuno deve fare la sua parte, a tutti i livelli. È un dovere verso le tante persone che fuggono sperando in un futuro.
La realtà è quella di cui mi occupo da oltre venti anni: l’accoglienza di richiedenti protezione internazionale. Mi capita spesso di andare nei centri di Prima accoglienza e negli Sprar a confrontarmi con gli operatori e soprattutto con le tante ragazze e i ragazzi che ce l’hanno fatta, che sono riusciti ad arrivare nella nostra Terra con la speranza di un futuro migliore, con un bagaglio misero in mano, ma enorme e troppo pesante nel cuore. Ascoltare le loro storie, il racconto del loro incredibile viaggio, è quanto di più lontano dal rumore di fondo dei social network e dei talk show di questi giorni.
Le parole di questi ragazzi sono simili tra loro, dalla Sicilia al Veneto. Parole forti, che ascoltandole è necessario far appello alla propria forza d’animo per non essere assaliti dalla rabbia o dallo sconforto. Violenze di tutti i generi alla persona e alla sua famiglia, sfruttamento, giorni e giorni claustrofobici, chiusi in una stanza senza cibo né servizi basilari. Questo è quello che accade in quei viaggi, e anche nella Libia delle tribù che si dividono il territorio e i traffici. La Libia è quel territorio che Unhcr considera privo delle condizioni minime per aprire uno o più centri di accoglienza. Lo ha ricordato anche il Commissario Avramopoulos. Impegnarsi sul campo in quel territorio ora è pericoloso davvero. Che fare, quindi? Lasciare tutto come sta e raccontarci che per noi è troppo pericoloso ma per i migranti non lo è? No. Dobbiamo provare a cambiare e ognuno deve fare la sua parte, a tutti i livelli. È un dovere verso le tante persone che fuggono sperando in un futuro.
Le Ong possono essere un attore protagonista del cambiamento, come è accaduto negli anni in molti territori nel mondo, ma serve un grande patto tra Nazioni Unite, Stati, Organizzazioni Internazionali e Ong per creare in Libia le condizioni minime di rispetto della dignità e dei diritti umani, e creare un tessuto sociale che incida nel cambiamento della vita politico-istituzionale del Paese. Solo così possiamo togliere linfa all’orrendo mercimonio di essere umani su cui prosperano trafficanti di tutti i tipi.
Non ci sono alternative. Abbiamo l’obbligo di salvare le vite umane. Punto. È un dovere morale, salvarli e non farli tornare in luoghi dove la morte è dietro l’angolo, in Libia e in tutti i paesi di guerre e soprusi. Per questo è necessario – e non deve essere screditato o messo in ombra – il lavoro delle Ong che ogni giorno impegnano volontari e professionisti in mare, che monitorano e salvano persone, in collaborazione con la Guardia Costiera Italiana, la Marina Militare e gli altri protagonisti istituzionali che operano nel Mediterraneo.
Salvarli ed accoglierli. Secondo i dati del Ministero dell’Interno le persone arrivate in Italia ad oggi sono diminuite rispetto al 2016, sbarchi in diminuzione nel mese di agosto, proprio come nel 2016 rispetto al 2015. Di quale invasione stiamo parlando dunque? Sono numeri gestibili, come ricordava ieri il direttore di Repubblica Mario Calabresi, sono i numeri degli stadi di Roma e di Milano. E questa sarebbe una invasione? Un assedio?
Partendo dal presupposto che l’Europa non ci può e non ci deve lasciare soli, l’Italia è in grado di continuare a fare la sua parte. Proprio grazie al terzo settore, al lavoro di molte associazioni, cooperative e Ong, e ai Comuni che accolgono (circa il 23%) il sistema di accoglienza funziona.
Certo anche qui occorrono passi avanti importanti: dobbiamo approvare un albo di accreditamento delle organizzazioni che fanno accoglienza, che necessitano di professionalità e caratteristiche per poter svolgere questo lavoro. Non possiamo permettere che società che si occupano di canili, o imprese edili per la manutenzione del verde diventino soggetti che fanno accoglienza. Questo crea un problema per le ragazze e i ragazzi, per il loro futuro, per la loro integrazione e anche per il territorio dove vengono accolti.
Dobbiamo evitare centri di accoglienza con migliaia di persone in comuni di appena 3500 abitanti, e occorre creare meccanismi premiali per progetti che praticano l’accoglienza diffusa nel territorio, con piccoli nuclei, che la avvicini il più possibile al sistema SPRAR, il più virtuoso. Far sì che nei centri di Prima accoglienza i beneficiari non rimangano per anni nell’incertezza, ma solo pochi mesi, velocizzando le procedure della Commissione. Inoltre è quanto mai urgente verificare tutti i centri di accoglienza, e chiudere le strutture inadeguate, quelle che lucrano alle spalle dei migranti, quelle che non hanno professionalità, quelle che non sanno cosa sia la presa in carico delle persone. Il nostro obiettivo comune dev’essere quello di porre l’individuo al centro di percorsi d’integrazione sempre più efficaci.
articolo tratto dalla rivista vita.it
Non ci sono alternative. Abbiamo l’obbligo di salvare le vite umane. Punto. È un dovere morale, salvarli e non farli tornare in luoghi dove la morte è dietro l’angolo, in Libia e in tutti i paesi di guerre e soprusi. Per questo è necessario – e non deve essere screditato o messo in ombra – il lavoro delle Ong che ogni giorno impegnano volontari e professionisti in mare, che monitorano e salvano persone, in collaborazione con la Guardia Costiera Italiana, la Marina Militare e gli altri protagonisti istituzionali che operano nel Mediterraneo.
Salvarli ed accoglierli. Secondo i dati del Ministero dell’Interno le persone arrivate in Italia ad oggi sono diminuite rispetto al 2016, sbarchi in diminuzione nel mese di agosto, proprio come nel 2016 rispetto al 2015. Di quale invasione stiamo parlando dunque? Sono numeri gestibili, come ricordava ieri il direttore di Repubblica Mario Calabresi, sono i numeri degli stadi di Roma e di Milano. E questa sarebbe una invasione? Un assedio?
Partendo dal presupposto che l’Europa non ci può e non ci deve lasciare soli, l’Italia è in grado di continuare a fare la sua parte. Proprio grazie al terzo settore, al lavoro di molte associazioni, cooperative e Ong, e ai Comuni che accolgono (circa il 23%) il sistema di accoglienza funziona.
Certo anche qui occorrono passi avanti importanti: dobbiamo approvare un albo di accreditamento delle organizzazioni che fanno accoglienza, che necessitano di professionalità e caratteristiche per poter svolgere questo lavoro. Non possiamo permettere che società che si occupano di canili, o imprese edili per la manutenzione del verde diventino soggetti che fanno accoglienza. Questo crea un problema per le ragazze e i ragazzi, per il loro futuro, per la loro integrazione e anche per il territorio dove vengono accolti.
Dobbiamo evitare centri di accoglienza con migliaia di persone in comuni di appena 3500 abitanti, e occorre creare meccanismi premiali per progetti che praticano l’accoglienza diffusa nel territorio, con piccoli nuclei, che la avvicini il più possibile al sistema SPRAR, il più virtuoso. Far sì che nei centri di Prima accoglienza i beneficiari non rimangano per anni nell’incertezza, ma solo pochi mesi, velocizzando le procedure della Commissione. Inoltre è quanto mai urgente verificare tutti i centri di accoglienza, e chiudere le strutture inadeguate, quelle che lucrano alle spalle dei migranti, quelle che non hanno professionalità, quelle che non sanno cosa sia la presa in carico delle persone. Il nostro obiettivo comune dev’essere quello di porre l’individuo al centro di percorsi d’integrazione sempre più efficaci.
articolo tratto dalla rivista vita.it