di Andrea Deidda | Sardiniapost.it

C’è una linea immaginaria che collega Bakoteh, quartiere di Serekunda in Gambia, a Uta venti chilometri da Cagliari, Sardegna. Quella linea, che oltrepassa i confini di cinque Paesi e oltrepassa il mare, è il viaggio che ha compiuto Lamin nel 2014 alla ricerca di una vita più felice di quella che si stava lasciando alle spalle.

Lontano dal Paese allora governato da Yahya Jammeh, salito al potere ventitré anni prima con un colpo di Stato. Lontano da problemi familiari che ne mettevano a repentaglio la vita. È stato costretto a fuggire. Solo. A sedici anni. Ora ne ha venti e ha trovato in Sardegna una nuova famiglia fatta di amici e compagni di viaggio: “Vorrei passare tutta la vita qui – dice – a Uta sono felice”. Lamin ci accoglie nell’appartamento nel quartiere di Is Mirrionis che oggi condivide con due studenti universitari. Sardi. Assieme a lui c’è M’Jali, anche lui è gambiano. Del suo stesso quartiere. Prima che partisse si conoscevano solo di vista e, ironia della sorte, si sono incontrati a Iglesias. Da allora sono diventati amici. Mentre Lamin racconta la sua storia M’Jali suona la kora uno strumento, simile a un’arpa, tipico del Gambia.

Il viaggio di Lamin inizia nel 2014: “Avevo impedito il matrimonio combinato tra mia sorella, che aveva 13 anni, e un ragazzo di 25 anni a cui era stata promessa. È stata considerata un’offesa e non potevo più rimanere. Mi ha aiutato un mio zio, mi ha dato i soldi. Sono fuggito in Senegal a piedi assieme ad altre persone che scappavano.

Fino all’anno scorso in Gambia c’era un presidente dittatore e in molti temevano di essere perseguitati”. Dal Senegal il viaggio è proseguito: “Ho attraversato Mali e Burkina Faso pagando passaggi in auto”. Poi su un camion le tappe attraverso Niger e Libia. “Quando sono partito non avevo la minima idea di andare in Italia – ammette – volevo solo andare via in un posto tranquillo. Sicuramente non la Libia. In Libia c’è casino, nessuno vuole rimanerci. Tutto il mondo sa cos’è la Libia oggi. Ma non potevo tornare indietro e non avevo più soldi. Ho lavorato come idraulico, avevo imparato qualcosa nel mio Paese”.

Un mese di calma o poco più. “La polizia ha cercato di arrestarmi assieme ad altri migranti. Ma sono riuscito a scappare. Sono stato aiutato da un arabo, ha capito in quale situazione mi trovavo. Ha pagato per me il viaggio con il barcone. Sono rimasto un giorno da lui, la notte successiva sono partito. Intorno alle tre, al buio. Sulla barca c’erano tra le 100 e le 120 persone, tantissime, stavamo stretti”. In mare il barcone è stato soccorso, forse dalla guardia costiera italiana. Lamin non ricorda questo dettaglio: “Per fortuna il viaggio è durato poco. In due giorni ci hanno portato a Cagliari, al porto canale”.

Mappa interattiva del viaggio di Lamin


I primi mesi Lamin li passa a Elmas, al Cara il centro di prima accoglienza, oggi chiuso, situato a due passi dall’aeroporto. “Sembrava un carcere, eravamo tutti assieme, persone adulte e minori. Potevamo utilizzare un solo bagno e dormivamo in grandi cameroni. Per fortuna ci sono rimasto poco, tre settimane. Poi siamo stati trasferiti a Burranca”.

Quello di cui parla è un altro centro di accoglienza, il Burranca di Sinnai. Così come il Cara di Elmas due anni dopo è stato chiuso. “Lì siamo rimasti otto mesi, si stava meglio ma non bene. Non andavamo a scuola, non sempre ricevevamo i soldi del pocket money che ci servivano. C’era casino ogni giorno e spesso venivano i carabinieri. Abbiamo raccontato tutto a loro”.

Dopo Sinnai il passaggio al Cas (centro di accoglienza straordinaria) di S’Uliariu a Flumini di Quartu dove rimane sei mesi. “È andata meglio. Ci mandavano a scuola e sono riuscito a fare la domanda per avere lo status di protezione umanitaria alla commissione territoriale”.

Le cose migliorano quando per Lamin si aprono le porte del sistema della seconda accoglienza. Ed ecco che arriva a Uta nello Sprar gestito dal GUS Gruppo Umana Solidarietà. “Finalmente, qui sono stato molto bene. Mi sono innamorato di Uta, sono felice e voglio rimanerci per tutta la vita. A Uta sono tutti miei amici” dice sorridendo.

Grazie allo Sprar (sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati) Lamin inizia una vita autonoma e col tempo più indipendente. Frequenta corsi di educazione alla cittadinanza italiana, teatro, corsi di lingua e altri più professionalizzanti grazie ai quali riesce a fare alcune esperienze di lavoro: “Ho fatto un tirocinio come aiuto cuoco in un locale di Cagliari, so preparare i dolci e mi piacerebbe lavorare in cucina”.

Ora Lamin, maggiorenne, è uscito dallo Sprar e ha iniziato una nuova vita a Cagliari. “L’Africa mi manca moltissimo, la mia famiglia mi manca ma i miei familiari li sento spesso su Whatsapp”. Da alcuni mesi vive in un appartamento a Is Mirrionis assieme a due universitari sardi con cui dice di andare “molto d’accordo”.

Appena potrà però tornerà a Uta. “Ho imparato a essere indipendente, devo lavorare altrimenti non mangio”. Ma trovare lavoro non è facile: “Quando vado in giro a portare il curriculum pensano che debba chiedere l’elemosina e spesso non mi danno attenzione. Integrarsi è difficile – prosegue – basta che un nero faccia qualcosa di brutto e si pensa che tutti i neri sono cattivi. Per questo dico che in Sardegna c’è il razzismo, ma così come c’è in Gambia e in altre parti del mondo. Ci sono persone razziste che hanno paura senza motivo, altre che non lo sono.

Una notte stavo rientrando a casa mia intorno alle quattro, quando una ragazza che stava facendo la strada dalla parte opposta ha nascosto il telefono cellulare nella borsa e ha cambiato strada. Non è stato bello. Ma a me non interessa, vado avanti”.